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Mi scoppia in testa una poesia di Emily Dickinson,
a noi contemporanea da due secoli fa:
Concentrarsi come il tuono al proprio culmine
poi sgretolare con sfarzo e fragore
mentre ogni cosa creata cerca rifugio
Questo - sarebbe Poesia
. . .
... nessuno vede Dio e poi vive
Così - Emily - questo sarebbe Poesia
oppure potrebbe - questo - essere un volo di caccia sopra Mostar
concentrato come il tuono al culmine
che in tutta gloria si scaravolta in giù
in un cielo arreso allo sfarzo dei suoi metalli
mentre ogni cosa creata cerca rifugio
O che sia - questo - un cielo in prosa
necessariamente concavo per contenere tanto fragore
come ogni carne che si apre al male
Nessuno vede Dio e poi non muore
Siamo stati invitati qui in quanto scrittori musicisti registi a riferire di una città simbolo; a riferire della storia che quella città si porta dentro. Ma questo non lo possiamo fare. Non ci può bastare la sfera dell'informazione pensando a Mostar, nè ci si accontenta dell'atto del descrivere o peggio del resoconto delle atrocità, del loro peso sulla bilancia delle parti. "Senza fare i furbi", di quella città possiamo dire solo quella storia che ci portiamo dentro noi. I nostri colpi di vista, come dicevamo all'inizio. Costretti come tutti ad ammettere che l'intensità delle culture che fondano le città complesse come Mostar non è uno scudo, nè una salvaguardia o una diga di tenuta, anzi: che i crolli dall'alto sono più fragorosi di quelli rasoterra, e fanno più dolori. Nè ci rassicuriamo pensando ad un impazzimento delle identità, non siamo illuministi, non ci possiamo contentare di attribuire la responsabilità di quelle guerre alla sconfitta della razionalità sociale. Perdonate lo sciocco gioco delle parole, è stato il sonno della ragione a generare Mostar? Difficile crederlo. Così come sarebbe difficile spiegare tutto con il mero calcolo economico degli interessi in gioco. Troppo confortevole. Meno confortevole imparare che siamo in guerra, se qualcuno ce la dichiara. E che ai piccoli le armi servono più delle parole, intanto che i Grandi trattano.
Ma quella voglia di gioia degli sconfitti, il loro reclamo alla vita, l'istinto nei cromosomi a stare insieme, possiedono una forza che ti contagia alle ossa, e ti lascia barcollante a chiederti che cosa difendiamo noi. E ci si ritrova con una generazione europea intera nei caffè del dopoguerra a divorare carni e birra a prezzi contenuti, ascoltando gli elenchi del terrore, pensando a cosa avremmo fatto noi o dovuto o potuto. Ci si ritrova a camminare ad occhi e nervi accesi rapportando ogni cosa a noi, cioè a quel poco che ci pare di conoscere veramente. Pronti ancora a dire la nostra, su questo mondo che ci scappa ancora.
Perchè occorre essere onesti, spesso le città estreme, queste città dense, divengono palestre dove esercitare i nostri ultimi tormenti di Occidentali. Colti e di sinistra. Commovibili ed equosolidali. Sono città che nello spiazzamento che ci propongono, nella loro crudezza non addomesticabile diventano perni per l'esplosione delle nostre identità, altrimenti così ben ordinate. Sembrano lì apposta per scardinarci.
E così, ci vorrebbe forse la penna di un Hemingway del 2000 per dire quello che ho visto davvero tra le rovine di Mostar: eccola qua, la Fiesta della nostra generazione, finalmente ne abbiamo avuta una tutta per noi.
Questa la nostra guerra di Spagna, tutta mentale.