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Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti hanno preso direzioni diverse. E la separazione lascia ad ognuno di loro, e a noi, qualcosa di che i CSI non potevano darci: un libro sulla Mongolia e un disco di musica sintetica. "In Mongolia in retromarcia" è un libro che non si lascia leggere distrattamente, così come "Co.dex" non si lascia ascoltare facilmente. Molto si è scritto (e si scriverà) su Co.dex, poco invece abbiamo sentito dire, finora, sul libro. Vi proponiamo la cartella stampa che accompagna la copia che Zamboni ci ha mandato, ma presto speriamo di poter aggiungere altro. A proposito di Co.dex riportiamo invece due interessanti interviste a Ferretti, una di Riccardo Bertoncelli (Linus) e l'altra di Flavio Brighenti (Musica!)
Vi segnaliamo infine che su Sonica potete ascoltare uno stralcio di Barbaro, un brano estratto da Co.dex.
In Mongolia in retromarcia è l'opera prima, ma anche l'ultima insieme, di Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, due musicisti già noti per il lavoro con i CSI e, prima, con i CCCP -Fedeli alla Linea, due dei personaggi più influenti della musica italiana del nostro tempo. In origine queste pagine dovevano essere il controcanto su carta di un album di musiche "extra CSI" realizzate da Zamboni e Ferretti a Berlino. La storia ha provveduto altrimenti e l'album porta la firma del solo Ferretti; un legame fra i due progetti tuttavia resta, per via di alcune poesie de Il traboccare del vuoto messe in musica.
Un originale libro a incastro, il loro, diviso in due parti: dapprima un emozionato e visionario resoconto di un viaggio in Mongolia nell'estate 1996 (la sezione che dà il titolo al libro) scritto da Massimo Zamboni che é, come dice l'autore, "il percorso di un viaggio di solo ritorno, scritto di getto, in loco, tra le scosse del furgone con il quaderno sulle ginocchia, seduti nelle rare pause, in piedi camminando nella steppa...", poi una serie di appassionati flash tra presente e passato, realtà e fantasia, Oriente e Appennino emiliano (Il traboccare del vuoto di Giovanni Lindo Ferretti).
Un viaggio non solo geografico ma anche e soprattutto spirituale, alla ricerca delle loro radici profonde; compiuto in un momento cruciale nella vicenda artistica dei CSI e sistemato in forma di libro proprio quando le strade dei due si sono divaricate e il loro ventennale sodalizio é venuto meno.
Che a nessuno venga in mente di relegare queste pagine nel cantuccio dei "libri di musicisti rock". Qui c'è molto di più: c'è la stessa intensità delle migliori canzoni CSI, la stessa voglia di cercare, con suoni e parole, un senso profondo tra le pieghe della vita.
Ferretti Lindo Giovanni ha pubblicato un disco molto nuovo e molto antico, diverso e uguale, proprio come lui. Si chiama Co.dex e non ci sono i CSI, solo lui alla voce ed Eraldo Bernocchi alle macchine, I patti erano questi, e va bene. I patti non erano invece che mancasse Massimo Zamboni, compagno di musica e avventure fin dai giorni dei CCCP-Fedeli alla linea. Però è capitato, e proprio quando il legame fra i due sembrava farsi ancora più saldo per via non solo di un disco ma anche di un libro (In Mongolia in retromarcia, Giunti editore). Una rottura inattesa e traumatica, che ha sconcertato i fans e stimolato gli istinti pettegoli dei media. Di questa crisi, oltre che della sua nuova musica e dei progetti per il futuro, Ferretti parla nelle righe che seguono. Molto chiaro e schietto, come sempre, come le parole che ha voluto in calce alle note stampa dell'album e che ben lo raffigurano: <<l'unica cosa che posso offrire è la sincerità della mia anima, l'onestà della mia riflessione, le mie parole che sanno solo essere carne e sangue mio, "adulto maschio mammifero di specie umano bianco". Troppo faticoso? Troppo poco o inutile? È tutto quello che c'è. E "coinvolge Cielo e Terra, e trabocca dal Cuore">>.
Mi piacciono le radici. Fin dove arrivano quelle di Co.dex e quelle del libro?
Sono intrecciate. Tutto è successo nell'arco di un anno, perché esattamente alla fine di marzo '99 io sono stato tolto dal mio esilio privato e spinto a lavorare a nuovi progetti. Stavo sistemando casa, facevo il manovale da mesi e mesi senza vedere nessuno. Mi ha chiamato Massimo Zamboni e mi ha detto: "Ferretti, c'è un anno lungo davanti a noi, è ora di cominciare. Ho scritto un libro, ricordi?, c'era un accordo che anche tu ne scrivessi una parte. Poi c'è "Bologna 2000". E poi ho un'idea che vorrei sviluppare con te. Ti dico solo una parola, tu capirai: Berlino. Lì ci siamo conosciuti e lì andremo a festeggiare i vent'anni della nostra onorata società, con un disco di musica sintetica senza i CSI". Mi sono sembrati bei propositi, ho lasciato la casa a mezz'aria e ho detto sì. Così è cominciato un anno incredibile, che ancora non so decifrare.
Il libro siete riusciti a farlo...
Il libro sì. L'ho scritto di getto, a mano, tre settimane ad aprile scorso, mescolando impressioni del viaggio in Mongolia con ricordi più lontani della mia infanzia, di altri tempi.
Il disco invece no, "l'onorata società" si è infranta, C'è un perché?
Ci sono tanti piccoli perché, minuzie, gocce che hanno scavato. Incomprensioni. Quello che so è che a luglio ho cominciato ad accorgermi che c'erano dei problemi e a settembre era già diventato impossibile parlarsi. Non voglio dare colpe: anzi, me ne prendo la maggior parte. Forse per anni tutto fra noi è venuto d'istinto, perfettamente, e non abbiamo imparato a dialogare. Fatto sta che, quando è venuto il momento di parlare, non eravamo più in grado di farlo.
Quando c'è stata la rottura?
In studio, a Berlino, quando ho cominciato ad ascoltare le basi musicali che Zamboni stava registrando con Eraldo Bernocchi, Eberhard, il mio "maestro delle macchine". C'erano queste strutture quasi definite e a me non piacevano; erano troppo "canzoni", era come un disco senza i CSI però "come se" ci fossero. E parlando con Eberhard ho scoperto che le cose che mi piacevano, il poco che salvavo, era farina del suo sacco; e che lui la pensava proprio come me. Lì ha cominciato ad aprirsi il solco, anche se per un po' abbiamo congelato la situazione e siamo andati avanti ognuno per la sua strada. A un certo punto il problema è emerso, anzi, è esploso: stavamo facendo due dischi, bisognava scegliere. Lì abbiamo formalizzato la rottura, trovando alla fine un accordo: il disco come progetto mio, il libro a Zamboni, i proventi fifty fifty.
Nonostante le difficoltà, sei contento di quest'album?
Sono molto contento di questo disco e penso che mi rappresenti bene e in profondità. Però non posso dimenticarmi di come è nato e cresciuto. Vedi, dagli inizi dei CCCP a Tabula rasa io ho sempre avuto un progetto entro cui lavorare, una cornice. Qui il progetto era registrare a Berlino insieme a Zamboni, e questo non è accaduto. Così ho un album che è figlio di circostanze diverse: alcuni pezzi sono nati in opposizione a Zamboni, altri facendo a meno di lui, altri ancora quando ormai eravamo solo io e Bernocchi. Questa cosa alla fine la colgo e non è quello che c'è a preoccuparmi, è quello che manca. Alla fine mi è venuto da pensare: "Ah, potessi entrare in studio domani...".
Vuoi dire che è stata praticamente una prova sul campo?
Sì, vuol dire che ho imparato. Io non avevo idea di cosa fosse la musica sintetica. Era una musica a cui non avevo mai dedicato neanche un pensiero. Tutto quello che ne sapevo era vecchio di vent'anni: i Throbbing Gristle, i Popol Vuh, i DAF, ecco, al massimo ero arrivato lì. Ogni tanto chiamavo il mio amico Alberto Campo e mi facevo spiegare quello che succedeva nel mondo dei suoni. Mi viene da ridere a pensare a tutte le chiacchiere che abbiamo fatto. Trovo che avessimo entrambi ragione; lui perché mi ha sempre parlato di cose effettivamente interessanti e mi ha indicato "la" strada, io perché comunque devo salvare la mia storia. Io sono Ferretti Lindo Giovanni, uno a cui tocca di fare il musicista ma che musicista non è, non può essere. Per essere me stesso come mi piace essere, devo salvare una parte di me che non capisce. Se no farei recensioni, non dischi.
Nelle note stampa hai scritto che "apprezzo la musica sintetica perché è quella che meglio racconta il nostro mondo, l'unica che lo rappresenta a tutto tondo, al di là delle intenzioni, della volontà, delle capacità".
Certo, ma non solo. Quel che mi ha affascinato è stato trovarmi in una situazione estremamente moderna ma anche profondamente arcaica. È come all'origine di tutto. Ho le mie parole e basta. E se le mie parole vogliono diventare un canto ho bisogno di qualcosa: di mani che battono, di piedi che pestano, del ritmo del cuore. Le macchine possono darmi tutto ciò con molta facilità. E questo fra l'altro sposa un lato del mio carattere, una mia prerogativa. Nelle cose che vado a fare, io ho bisogno di forzare quel che di moderno c'è in me, legato proprio alla contemporaneità - oggi pomeriggio più che stamattina - e nello stesso tempo di ritrovare la mia essenza antica, proprio alle origini della civiltà, In questo gioco, mi interessa poco cosa è accaduto negli ultimi vent'anni. Mi interessa invece un sacco quel che è accaduto negli ultimi quattromila. È come per i vecchi: si ricordano benissimo cos'è successo quand'erano bambini mentre hanno dimenticato le cose più vicine. Però, se campano trent'anni, quelle cose vicine diventano lontane e tornano a ricordarsele. Io sono un po' in questa dimensione.
Questo amore per la musica sintetica vuol dire sfiducia nei CSI?
Assolutamente no. Io non vedo l'ora di ritrovarmi a cerchio con i CSI e progettare qualcosa per il futuro, anche perché quest'album con le macchine mi ha portato paradossalmente ad apprezzare lo sforzo e il lavoro diverso con i musicisti. Diciamo che sono due strade differenti, che io posso percorrere in parallelo. Suonerò ancora con i CSI ma adesso mi si è spalancata una finestra e non posso fare a meno di guardare cosa c'è oltre.
Solo in studio o anche in scena?
Ah, sicuramente anche in scena. Vedi, io sul palco sento di aver sempre fatto il minimo indispensabile, quel che proprio non potevo non fare. La mia energia allo stato brado, che usciva senza impedimenti ma anche senza studio. Ora sento che ci devo lavorare. Questo disco mi lascia intravedere una situazione in scena che non è concerto e non è teatro ma una via di mezzo. Adesso non ho tempo e modo di progettare bene ma in autunno penso che farò qualcosa, magari non una tournée ma una serie di spettacoli giocati sul dialogo fra "il signore della voce" e "il signore delle macchine". Mi vedo Eberhard in camice bianco circondato dagli strumenti; e Ferretti vestito come Mishima o Majakovskij, cioè grisaglia e camicina bianca o grigia. E poi qualcosa che succeda, se no è troppo poco. Devo costruire un nuovo spazio scenico, una serie di azioni che facciano risaltare la voce e le macchine.
E in studio, come potrebbe essere un Co.dex 2?
Non so, potrebbe avere quello che non c'è qui. In questo disco manca il mio mondo. Ho dovuto lavorare con i suoni di Eberhard, non con i miei. E io ho una serie di voci infinite nella testa che premono per uscire e che non sarebbero plausibili in un contesto CSI mentre in questa dimensione sono perfette. Ho in testa mia madre e le sue amiche che dicono le preghiere in chiesa a Cerreto e sento le loro litanie di donne vecchie sul punto di morire. Quelli sono i miei suoni, adesso ho capito che devo cercarli e portarli da me passando per il registratore di Bernocchi. Come gli zoccoli del mio cavallo sul selciato. Davanti a casa c'è un selciato che ha un suono fantastico, ogni tanto esco a cavalcare solo per il piacere di ascoltarlo. Il mio prossimo disco comincerà così; con il rumore di quattro zoccoli non ferrati sui lastroni di arenaria vicino a casa mia.
Anche la disperazione impone dei doveri. Questo cantava Giovanni Lindo Ferretti in un verso - lapidario, come gli capita spesso di usarne - di Linea gotica, l'album più cupo nella parabola artistica dei CSI. Coerente con quanto asserisce nelle canzoni che interpreta, l'artista emiliano ha pubblicato un disco intero improntato a quello stesso principio. Si intitola Co.dex, è l'album del debutto da solista ed è nato senza un progetto preventivo, cosa che non gli era mai capitata sin dall'epoca punkettona della militanza nei CCCP. Nelle intenzioni, il disco doveva rappresentare (insieme al racconto di viaggio "In Mongolia in retromarcia", edito da Giunti) una rigenerante boccata d'ossigeno fuori dal gruppo-madre per lui e il compagno d'avventure Massimo Zamboni, concepito per di più nella stessa città (Berlino) dove quella storia aveva avuto inizio nel lontano 1979. Nella realtà, l'appartamento-studio affittato a Neukolin, nella zona Est, avrebbe assistito alla rottura definitiva della loro vicenda. "Eravamo tornati a Berlino per festeggiare un sodalizio ventennale, invece abbiamo consumato sul piano personale la nostra tragedia", ricorda Ferretti. Ma il livore prima, e il lutto da elaborare poi, devono passare. Mentre gli impegni restano. "C'era un contratto da rispettare, me lo imponeva la mia onestà intellettuale. E poi di diritti ne ho anche troppi: in fondo quelli come me sono dei privilegiati", confessa Giovanni Lindo. E allora, sfilato dall'impresa Zamboni, restava moltissimo da fare. Ferretti doveva artisticamente rinascere. Reinventarsi. Magari con una sfida. Ed è quanto puntualmente s'è verificato. Grazie alla cocciutaggine del titolare, e all'amico produttore Eraldo "Ebherard" Bernocchi, mago delle macchine elettroniche e del beat sintetico, già con Bill Laswell e Almamegretta. "Questo è il suono che sta cambiando il mondo, a prescindere dal giudizio che se ne dà", giura Ferretti. Che, da par suo, ha scelto di misurarsi con quell'universo sconosciuto con le uniche armi a sua disposizione: la passione e la fierezza di un antico guerriero.
"Le parole da sole non bastano, mi serviva almeno una intelaiatura ritmica minima. La "macchinetta" di Ebherard permette di ricodificare la musica: mi offriva tutti i suoni del pianeta, e tutti i suoni modificati e modificabili". E siccome un disco da solista tende ad essere più estremo di quelli concertati assemblearmente (con i CSI, per esempio), Co.dex suona come un'autentica mazzata elettronica alle orecchie dei fan. Lungo dieci canzoni, il disco offre il personalissimo punto di vista di Ferretti sui mali del mondo, "in un eccesso di sincerità o di amarezza", assicura lui "d'altronde questa era la prima volta in assoluto che cantavo solo per me, senza tener conto, anche, delle necessità dei compagni di gruppo". In quanto ai suoni, l'illuminazione è arrivata insieme alla tromba del giapponese Toshinori Kondo, che compare in due episodi dell'album. "Ho capito che insieme all'elettronica e alla voce, gli strumenti "veri" potevano e dovevano essere utilizzati come colori, nulla di più". Certo è che, nell'economia generale del disco, Ferretti concede poco o nulla al "vecchio" concetto di musica. Un ritornello soltanto, su Frontiera. Poi tanta disperazione. Elevata ad arte.