CONSORZIO SUONATORI
di Stefano Bonagura
C'E' VOLUTO DEL TEMPO PER FAR USCIRE NUOVAMENTE ALLO SCOPERTO MASSIMO ZAMBONI E GIOVANNI LINDO FERRETTI, NUCLEO STORICO DEI VECCHI CCCP, DUE PERSONE AFFASCINANTI, CARISMATICHE, TERRIBILMENTE DIVERSE DAL MONDO CHE LE CIRCONDA. HANNO DECISO DI ESPRIMERSI ATTRAVERSO LA MUSICA, MA PARLANO UNA LINGUA DIVERSA DA QUELLA DELLA CANZONE.
CSI
Sono passati quattro anni circa da "Epica Etica Etnica Pathos" l'ultimo album dei CCCP, che servì a gettare il seme dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti), apparsi ufficialmente la prima volta dal vivo al Festival delle Colline del 1992 all'inaugurazione del tour "Maciste contro Tutti". C'è voluto del tempo per far uscire nuovamente allo scoperto Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, nucleo storico dei "vecchi" CCCP, due persone affascinanti, letteralmente calamitanti, terribilmente diverse dal mondo che le circonda: hanno deciso d'esprimersi attraverso la musica ma parlano una lingua diversa da quella della canzone, raccontano la realtà filtrata dai sentimenti personali e politici di una generazione di passaggio, tanto legata alle tradizioni, ai luoghi [Emilia], quanto aperta al futuro. Con grande passione.
RS: Berlino 1982: l'incontro con Giovanni Lindo Ferretti, la nascita dei CCCP. Italia 1994: il primo disco dei C.S.I. Cosa c'è tra queste due date?
Massimo Zamboni: La cosa più grande, visto che non mi piace e non m'interessa parlare solo di musica, è il Muro di Berlino: non che io ne senta particolarmente bisogno, però mi rendo conto (lo pensavano anche nel 1982) che senza il Muro il mondo non è più lo stesso. In qualche modo noi ci auguravamo che non fosse mai più lo stesso, perché non era granché.. Solo che adesso la situazione che c'è in giro è veramente pesante. Il Muro era una specie di feticcio che impediva la frana; era proprio l'ostacolo che bloccava due frane che si fronteggiavano. Senza Muro, le due frane si sono mescolate. Questo scatena una serie di supposizioni: se ti chiami CCCP, devi fare i conti con queste cose. Personalmente avevo un attrazione per il Muro, che la mia militanza democratica di sinistra non mi avrebbe consentito. Se ci fossimo chiamati in un'altra maniera, non avremmo mai potuto parlare di queste cose. Il problema è che questa Europa unita è molto peggio delle due che c'erano prima. La musica ti consente d'esprimere quello che ti passa per la testa, in maniera irrazionale ed inafferrabile: noi con la musica abbiamo cercato di tirar fuori perplessità e certezze che vagavano intorno al Muro, cosa che razionalmente è molto più difficile fare, perché per farti capire devi usare parole che spieghino e questo ti frega.
Le parole sono troppo usate ed io purtroppo per esprimermi devo usare le stesse parole che leggo sui giornali. Le mie informazioni vengono da un giornale, non dalla vita, ma da righe scritte sopra un foglio bianco. Con la musica riesci a valicare questo schema di comunicazione.
RS: Che cosa ha portato a chiudere l'esperienza CCCP, a dire basta?
Massimo Zamboni: Ci sono un sacco di motivi personali, ma la cosa che c'interessa sottolineare di più è la fine del mondo orientale. Aprire un'esperienza che si chiama CCCP fa sì che sia giusto che tu la chiuda quando non ha più senso l'esistenza di questo nome.
RS: Nel passaggio dai CCCP ai C.S.I., dall'ultimo album doppio del 1990 ad oggi, il pubblico secondo te ha seguito il vostro stesso percorso, oppure no?
Massimo Zamboni: Non lo so! L'idea di pubblico è sempre molto strana, non è mai quello che t'aspetti. Comunque penso che molti abbiano seguito il nostro stesso percorso, perché quando tu dici delle cose abbastanza precise, il tuo pubblico si delinea: tutti quelli che si riconoscono nelle stesse idee hanno lo stesso tipo di problemi, gli frullano in testa le stesse perplessità rispetto al mondo. Di fatto adesso siamo tutti obbligati a pensare alla C.S.I., al nuovo assetto della Russia e delle altre repubbliche indipendenti, a cosa vuole dire. Quando la gente si spara, dietro c'è sempre qualcosa di strano. Prima tutto veniva tenuto insieme dai potere centrale, che non permetteva un'esplosione così sanguinosa: non saranno sicuramente le nostre canzoni a fermarla, né le nostre idee a modificare questo stato di cose. Noi siamo nati, tra l'altro, ascoltando i Sex Pistols: la cosa che mi piaceva di più era "No One Is Innocent", nessuno è innocente: se la guerra nella ex Jugoslavia fosse qui da noi, non so tu di dove sei, ma io ti sparerei e tu spareresti a me. Perché? Non lo so!!! Io non ce l'ho assolutamente con nessuno, non c'è nessuna etnia che mi dia fastidio, lo sento dentro che non è così. So che sarei costretto a sparare, perché qualcuno sparerà a me che sono di Reggio Emilia. Non siamo innocenti.
RS: Questo primo vero disco di C.S.I. potrebbe avere un marchietto sopra con un'indicazione di "genere" definita come quella di "Ortodossia", musica melodica emiliana e punk filosovietico?
Massimo Zamboni: No, perché all'epoca avevamo bisogno di caratterizzarci in maniera molto forte. Questa è un'esigenza che adesso non sento. In qualche modo Consorzio Suonatori Indipendenti è già la smentita di quello che sto dicendo, però è quasi più un gioco, molto reale: noi ci sentiamo davvero un consorzio di suonatori fra loro indipendenti. Vorrei riuscire a parlare un po' meno di politica, non perché non sia in grado, però... non capisco perché io ne debbo parlare e gli altri magari no, gli altri possono parlare solo di musica. Vorrei parlare di musica, vorrei che la musica parlasse: spero che lo faccia.
RS: Attraverso il suono?
Massimo Zamboni: Sì... poi i testi li scrive Giovanni. A me sembra di aver cambiato molto la mia maniera di suonare: prima pensavo di più alla struttura della canzone, a quello che voleva dire, adesso la cosa che m'interessa di più in assoluto è il suono, quello che esce dalla chitarra. Io non so mai in che tonalità sto suonando, ho disimparato a suonare la chitarra: era quello che volevo! Ho cambiato l'accordatura, in modo che quando uso la diteggiatura del Do, non è un Do, chissà che cos'è! M'interessa comunicare per sonorità, una cosa che non t'arriva al cervello, ma al cuore, al fegato, alle budella.
RS: Quanta logica c'è in questo progetto? E quanto istinto? Il suono è puro istinto, però hai pensato prima come ottenerlo, per cui non è più solo istinto...
Massimo Zamboni: No, ci ho pensato dopo! Sono molto razionale tanto da essere assolutamente istintivo nelle mie cose. Posso avere un approccio razionale, però alla fine quel che comanda è l'istinto: è la prima cosa che esce ed io so che seguirò quello. Poi magari dopo lo decodifico, lo sistemo, lo incasello. So che dopo ci penserò che spiegherò perché uso certe cose. Mi piacerebbe comunicare come sono.
RS: Questa è la posizione di tutti i membri dei C.S.I.?
Massimo Zamboni: Siamo finalmente musicisti indipendenti, non c'è più l'"opinione dei CCCP": questa è solo l'opinione di Massimo Zamboni, che credo sia molto simile a quella degli altri. Guarda Gianni Maroccolo [bassista, produttore]: lui enfatizza le frequenze basse, perché quello che gli interessa in fin dei conti è che t'arrivi una botta, vicino all'ombelico. A Giovanni interessano molto le parole, è il suo campo; però anche lui in questo disco ha tirato fuori delle frequenze che non gli interessava tirar fuori tempo fa. Credo che ti comunichino molto di più le sue basse frequenze che non quello che dice.
RS: Come giudichi quello che spesso può essere inteso come tono declamatorio nell'uso che Giovanni fa della voce?
Massimo Zamboni: Mah... io credo che Giovanni sia molto cambiato: cerca di non urlare. Il paragone che si faceva sempre tra di noi era quello del teatro classico shakespeariano, con un palcoscenico rotondo in mezzo ad una folla enorme, che parlava, urlava, vociava, per cui la prima cosa che faceva un attore shakespeariano era di urlare o comunque fare una cosa così forte che la gente doveva tacere e ascoltarlo. Il primo impatto era il silenzio assoluto. Credo che Giovanni abbia un po' la stessa capacità: ha un magnetismo suo, che t'obbliga ad ascoltarlo quando urla. Non è uno dei tanti che urlano. Urla solo quando ce n'è bisogno, e allora lo stai ad ascoltare.
RS: Sei cittadino o campagnolo?
Massimo Zamboni: Diventerò montanaro, spero di comprare una casa in montagna. Sono di discendenza montanara, di vita cittadina.
RS: Che rapporto hai con la città?
Massimo Zamboni: Pessimo in questo periodo: esco il meno possibile...
RS: In altri periodi avevi un rapporto più tranquillo?
Massimo Zamboni: Sì, mi piaceva l'idea della città, delle discoteche, del movimento, del traffico, della comunicazione urbana veloce. Adesso la detesto: faccio fatica, non respiro, esco dall'albergo, tiro un fiato e riprendo aria quando torno in albergo. E' il fisico che comanda, non sono io! Stiamo cercando di abitare in posti isolati, perché credo che la comunicazione che m'interessa sia questa: tu vieni magari a casa mia e parliamo in un'aia, in un orto, davanti alle galline, perché loro comunicano per noi. E' di questo che ho voglia.
RS: Fate dischi, tour, cose che comportano molte relazioni fra le persone e una certa dose di violenza.
Massimo Zamboni: Per une è una violenza enorme davvero! E' necessaria, perché chi ti ascolta ti vuole anche vedere, perché dà energia. Lo fai ed è un grande piacere, però la prima violenza è quella che ti toglie dal luogo dove stai abitualmente. Mi spaventa il fatto che in una tournée tu sei un moscerino e fai muovere un sacco di persone, un sacco di tecnici, di impianti. La conseguenza di un tuo accordo di chitarra amplificata enormemente, non è quello che esce dall'amplificatore: è vedere tutta questa gente che si muove per ascoltare un accordo, che se vieni a casa mia te lo faccio lì davanti pari pari! Il tour costringe la gente a muoversi in macchina, mentre io vorrei che venisse a piedi o a cavallo, da me che suono sopra un monte, senza impianto d'amplificazione. Però non ci si riesce... Non m'interessa il rapporto violento tra le persone: so che c'è, lo uso quando è necessario, lo subisco quando è altrettanto necessario. In realtà voglio di più. Voglio dolcezza e voglio comunicare questo.
RS: Com'è che i vostri dischi negli ultimi anni nascono in luoghi che non sono studi di registrazione ma ville di campagna attrezzate a studio?
Massimo Zamboni: Perché dentro uno studio soffro non solo mentalmente ma fisicamente, c'è qualcosa che mi dà un colpo: alla fine del disco degli Ustmamò sono andato in ospedale!!! Il mio corpo mi diceva "smettila! non puoi stare chiuso in un posto così, dove tutti fumano, dove ci sono solo delle macchine, moquette, luci che lampeggiano". Ho obbedito!
RS: I CCCP si sono sempre presentati dal vivo come un gruppo molto teatrale. Adesso come intendete presentarvi in concerto con C.S.I.?
Massimo Zamboni: Siamo un gruppo esordiente, anche se non è vero... Siamo agli inizi di una cosa che può finire anche subito, non ci aspettiamo un lungo futuro. Non c'è nessun progetto dietro a C.S.I. come c'era dietro a CCCP. Il primo gradino era fare "Maciste Contro Tutti", poi abbiamo fatto un nuovo disco, il gradino successivo sarà fare i concerti, che saranno molto più musicali, nel vero senso della parola, rispetto al passato. Credo sia molto più teatrale questa musica, che non quella dei CCCP, che era molto più legata alle parole o ad immagini concrete, molto forti, rappresentate da Danilo Fatur e Annarella. Lo spettacolo teatrale potenzialmente è contenuto nella musica.
RS: Nel libretto allegato alla compilation 1992, "Ecco i miei gioielli", Giovanni faceva un'affermazione drastica: "c'è grande bisogno di silenzio". Vorrei conoscerne le motivazioni.
Giovanni Lindo Ferretti: Per me era un problema fisico. A volte dico delle cose, che poi diventano delle affermaziomi filosofico-esistenziali; a volte sono delle constatazioni che riguardano me, in un momento preciso. Quelle chiacchiere sono uscite alla fine della storia CCCP e per me era un bisogno fisico: non percepivo più il piacere della musica ed avevo bisogno di svuotarmi le orecchie, di cambiare la qualità dei miei pensieri, avevo bisogno di silenzio esterno ma anche interno, di staccare. Questa cosa allora aveva un senso così grande che dopo siamo arrivati alla chiusura dei CCCP, non era una semplice battuta. Ora tutto ciò non ha più questo valore: continuo a pensare che c'è bisogno di silenzio, solo che per me ora significa che uno uno spazio della giornata non è dedicato alla musica, quando la musica c'è è importante. Non la uso come sottofondo. Per un certo periodo, come tante altre persone, ho vissuto svegliandomi la mattina e cercando un tasto da schiacciare: la musica per me era una colonna sonora che mi permetteva di vivere in condizioni di vita disagevoli [faceva freddo, non c'era il riscaldamento c'era poco cibo], un po' come le foglie di coca per i contadini boliviani. Adesso no! Adesso la musica è come il mangiare: quand'è ora, mi piace mangiare, poco o tanto, ma bene; non mi piace mangiare nei piatti di carta, voglio avere a disposizione una forchetta, mi piace ascoltare bene.
RS: Quella necessità dì silenzio poteva essere riferita ad un eccesso di parole?
Giovanni Lindo Ferretti: Io non ho nessuna capacità musicale: il mio stare allora nei CCCP, ora miei C.S.I., in realtà è il piacere della parola, del pensiero che diventa parola.
RS: "Non c'è più bisogno di produrre qualche cosa: tutto quello che è stato prodotto basta e avanza per altri 100 anni". Secondo te corrisponde anche questo al vero?
Giovanni Lindo Ferretti: La vita è molto più compromissoria delle affermazioni che si fanno.
Concretamente per noi il fatto che ci sia già tutto e non ci sia bisogno di niente vuol dire che in ogni modo riusciamo a farci affascinare dagli Ustmamò, Disciplinatha e Afa, che non sono novità assolute. Non siamo quelli che vanno alla ricerca del nuovo. Nuovo è come vecchio, con l'unica differenza che vecchio almeno ha sedimentato ed è già un po' più corrotto rispetto alla vita, e più adatto a noi. E poi mi sembra che nelle cose che rimangono sotto sotto ci sia più valore che nelle cose nuove.
RS: Tu Giovanni sei stato un simbolo nei CCCP: come hai vissuto questa responsabilità?
Giovanni Lindo Ferretti: Con i CCCP ad un certo punto siamo stati costretti tutti, ed io in maniera particolare, a rendercene conto. Questo ha portato alla fine. Gli ultimi concerti per me erano faticosi, anche perché la mia testa aveva cominciato a pensare ad altro, ad allargarsi. Ad un certo punto a stare sul palco uno si sente un po' come la Madonna Pellegrina. Ero il dicitore dei CCCP, non ero il cantante. Quando abbiamo iniziato, il gioco era bello da parte nostra, piacevolissimo: tutta la preparazione dei primi concerti consisteva nello stendere del filo spinato che dividesse bene le parti, noi dal pubblico. Poi la storia è diventata più grande di come l'avevamo pensata: il filo non c'era più, in compenso il palco diventava sempre più alto, l'impianto più grande, la gente di più. Personalmente non ero pronto. Non erano pronti neanche gli altri, però loro potevano mascherarsi meglio, io no. Ora sono molto meno ingenuo, sono molto più grande, i colpi sui marroni se mi arrivano è perché me li dò io. Se voglio fare dei concerti per vedere della gente perché è la mia spia, la guardo in faccia; se decido di suonare in un posto da 1.000 persone vuol dire che le tollero, che mi fanno anche piacere. Se dico di sì a qualcuno e poi mi ritrovo in mezzo a 25.000 persone, l'avrò voluto io, per cui sono cazzi miei. Invece con i CCCP la cosa era scappata di mano.
I DISCHI DEL MULO SECONDO FERRETTI E ZAMBONI
RS: Aver creato un'etichetta vuol dire svolgere l'attività dei discografici: m'immagino che per voi sia un discreto stress?!?
Massimo Zamboni: E' molto conflittuale, per cui la maggior parte del lavoro stiamo cominciando a delegarla. Il management dei gruppi lo cura Paolo Bedini, che organizza i concerti e anche un po' di più. Io vorrei curare l'aspetto artistico, la comunicazione. Intorno ai Dischi del Mulo abbiamo creato una specie di famiglia curiosa, dove tutti si guardano: è uno stimolo per tutti.
RS: Che tipo di rapporto c'è all'interno?
Massimo Zamboni: Credo buono, non da discografici. Gli Ustmamò ad esempio sono come dei nipotini, anche se io non mi sento così grande rispetto a loro, anzi... credo d'aver imparato molte più cose di quelle che ho insegnato loro. La stessa cosa con i Disciplinatha e gli Afa. Sono una parte di me. Curano degli aspetti che potrei curare anch'io... però son più contento che li curino loro.
RS: Avete rapporti molto vari con la discografia major: Ustmamò con Virgin [distr. EMI], Afa con Sugar [distr. Bicordi], C.S.I. con PolyGram. Questo vuoi dire totale varietà e libertà di fare quello che volete?
Massimo Zamboni: Non crediamo al concetto di libertà, né di lavoro, né d'espressione, niente di niente. E' un insieme di costrizioni, che ti concede di lavorare su queste cose. Noi non abbiamo trattato con loro come strutture, anche se avremmo dovuto, ma come persone, per cui gli abbiamo proposto altre persone che suonano qualcosa che ci sembrava gli potesse interessare.
RS: Come scegliete gli artisti? Li cercate voi, siete stati trovati, oppure gli incontri sono casuali?
Massimo Zamboni: C'è un sacco di gente che ci cerca: ho intere borse di demo, che non riuscirò mai ad ascoltare, oppure lo farò con grande ritardo. Sono due calamite che si attraggono, in qualche modo. Probabilmente noi eravamo gli unici in grado di capire veramente Ustmamò ed Afa, e di farci capire davvero da loro. Dopodiche' ci sono un sacco di bravi gruppi in giro, non è che questi siano gli unici. Gli Afa sono un gruppo dialettale che canta in italiano. I Disciplinatha sono un gruppo molto cittadino.
RS: Tu Giovanni come vivi I Dischi Del Mulo?
Giovanni Lindo Ferretti: Non ho mai risposto a questa domanda, perché so che quando comincerò a pormela dovrò fare qualcosa di più per i Dischi del Mulo. In realtà adesso è una specie d'opera artigianale, a cui è legata buona parte del mio/nostro piacere non e mai diventato un problema da affrontare. I Dischi del Mulo sono nati casualmente: una sera ho visto un concerto degli Ustmamò che mi sono piaciuti moltissimo. Se li avessi visti a Milano, Firenze o Bologna avrei pensato che in ogni caso potevano arrangiarsi, ma siccome li vidi in una discoteca dell'Appennino tosco-emiliano e loro erano ragazzini, ho proprio pensato che se non gli avessi dato una mano io che ero loro vicino di casa non si sarebbero mai mossi di lì. Il mio pensiero era di fare un disco per loro per dargli una mano. Ironicamente potrei dire che è stato una specie di senso civico. Dopodiché la cosa si è allargata ai Disciplinatha perché non li voleva nessuno. perché c'era una forte stima reciproca che derivava dal fatto che loro erano stati presentati come gli anti-CCCP. La terza cosa che abbiamo fatto i Dischi del Mulo è il disco di Giovanna Daffini: questa è la grande passione, musicale, sociale, politica, mia e di Zamboni ma l'abbiamo scoperto dopo anni che ci frequentavamo. Tutti e due sentiamo un forte senso di debito e riconoscenza nei confronti della Daffini, che poteva essere nostra madre. Tutto ha una dimensione artigianale di piacere, di non problemi: non riesco a farmeli rispetto a Dischi del Mulo, vorrebbe dire dedicargli un sacco d'energia, entrare nei problemi. I rapporti con le Case discografiche non sono facili. Cerchiamo di non cumulare i problemi. Attualmente non vado d'accordo con nessuna delle Case che distribuiscono i nostri dischi: preferisco di gran lunga avere dei piccoli problemi con tutti piuttosto che un grande problema con una sola. Anche perché ai piccoli problemi Massimo ed io possiamo far fronte, ma i grandi problemi ci ammazzano!!
AFA
"Noi abbiamo una passata esperienza con un altro nome, "En Mauque D'Autre" - racconta Taver, la voce del gruppo. "Ci siamo autoprodotti cinque LP e abbiamo suonato in giro per l'Italia. Il gruppo era rimasto un piccolo culto, legato agli anni Ottanta, tra quelli che hanno movimentato il panorama indipendente italiano. Poi abbiamo conosciuto Massimo e Giovanni: sapevamo della loro esistenza, conoscevamo l'opera dei CCCP, ma non avevamo mai avuto contatti. Ci siamo incontrati, si sono interessati a noi, ci hanno visti dal vivo, è nata l'idea di collaborare, siamo entrati nel loro management, insieme abbiamo deciso di cambiare nome, perché il vecchio era poco memorizzabile e forse non dava neanche l'idea di quello che volevamo fare. La formazione è rimasta sempre la stessa: siamo in 6, basso, batteria, chitarra, voce, più fiati, altri strumenti vari, ci scambiamo volentieri le parti".
RS: Dove siete nati?
AFA: A Correggio (RE).
RS: Vicini di casa di Ligabue?
AFA: Sì, ma non tutti, alcuni sono di Reggio Emilia. Con Ligabue siamo amici, spesso ci vediamo ancora, addirittura abbiamo iniziato a suonare negli stessi concorsi, sugli stessi palchi, le stesse feste.
RS: Come siete arrivati al suono di Acid Folk Alleanza?
AFA: Quando cominci a suonare, tendi sempre ad emulare il gruppo straniero. Non voglio negare d'aver ascoltato anch'io tanta musica americana o inglese: la nostra generazione è nata col punk, new wave, ecc. Poi magari c'è stata una riscoperta del passato, Can, Faust, Tim Buckley, Frank Zappa, Capt. Beefheart. Ad un certo punto capisci che non puoi solo interpretare delle cose, le devi filtrare attraverso la tua sensibilità, per cui abbiamo cercato d'intendere anche quello che ascoltiamo quotidianamente, in radio, facendo una specie di blob musicale. Dalle nostre parti, girando la sintonia della radio, puoi passare direttamente dai Sonic Youth a Castellina-Pasi, ci sono radio che programmano il liscio ma anche molte radio rock. Forse noi siamo ispirati da questo continuo bombardamento d'influenze varie.
RS: E' per questo vi avvicinate all'estetica musicale onnivora di John Zorn, che citate nelle note di copertina?
AFA: Con le dovute differenze: lui viene dal jazz, noi dal rock in senso lato. La cosa che più ci piace di lui è il fatto che nonostante provenga da un ambiente considerato colto [quello della musica jazz contemporanea], si è avvicinato a fenomeni giovanili popolari.
RS: Pensi che quella di John Zorn sia un'operazione realmente popolare o intellettuale?
AFA: Beh... secondo me entrambe le cose: popolare, ma curioso, che ha voglia di fare delle scoperte. La curiosità è una qualità umana che non dovrebbe mai scomparire, come forse è successo negli ultimi anni Ottanta.
RS: Fate musica di confine, citate occhiali tridimensionali e realtà virtuale: sono ulteriori passaggi tecnologici. Voi però di tecnologia non è che ne utilizziate tanta!
AFA: E' una cosa più a livello di comportamento: a noi [che siamo di tradizione contadina] interessa molto come viene recepito da un contadino l'arrivo della tecnologia. Così è stato quando la campagna si è meccanizzata, così adesso avviene col computer: a volte hai a che fare con persone che trattano il computer allo stesso modo di come potrebbero trattare una mucca nella stalla, come se la mungessero, magari imprecando. Ci piacciono questi scontri tra la tradizione ed il nuovo! La realtà virtuale per esempio arriva anche in un piccolo paesino, in un microcosmo periferico. C'interessa interpretare questi nuovi fenomeni, in senso casalingo-agreste: come si potrebbe comportare uno come noi, un tecnovillano, con la realtà virtuale?
RS: Tu, cantante Afa, cosa ascolti?
AFA: Per i testi le mie ispirazioni non sono musicali: sono i media, la letteratura [Burroughs, Vonnegut], il cinema [Lynch, Almodovar, B-movies], i fumetti, mi sono laureato con una tesi su Andrea Pazienza. E' una linea che unisce le cose più ricercate, senza snobismi, leggibili da tutti, ascoltabili, con una piccola ricerca in più.
RS: Già nel vostro nome c'è un riferimento alla cultura acida, che mancava da parecchi anni e sta tornando in auge, sia nella musica che in letteratura, nei testi delle canzoni.
AFA: Questo richiamo c'è perché la musica non dev'essere solamente un documentario, non deve semplicemente riportare la realtà dei fatti, come fanno i telegiornali. La musica deve fantasticare su quel che avviene, deve stravolgere, rivoltare la realtà.
USTMAMO'
Quattro, più il batterista: vengono dall'Appennino tosco-emiliani e questo ha da sempre caratterizzato il suono del gruppo, che all'uso del dialetto ha saputo unire tutte le influenze possibili in una ricca miscela pop che può esplodere da un momento all'altro, tra le poche grandi realtà italiane di questi anni.
RS: Cosa vuoi dire essere nati vivere e suonare dall'Appennino? Fateci sentire l'odore dei luoghi.
MARA REDEGHIERI: Più vado avanti e più scopro d'essere una persona profondamente radicata nei luoghi dove vivo: sono legata agli odori, alla cucina, al paesaggio, al dialetto, a tutto ciò che fa parte di questo piccolo microcosmo. Noi siamo a 45 km da Reggio Emilia, verso il crinale che divide la Garfagnana dall'Emilia: più andiamo verso il nostro crinale, verso il passo del Cerreto, più ci avviciniamo alla Toscana. Io tengo particolarmente al dialetto: sono affezionata a tutto quello che mi parla del posto dove sono nata, che mi giunge particolarmente felice. Vorrei sempre di più capire, scoprire da dove vengo, chi c'era prima, qual è la storia dei paesi, dei piatti che si cucinano qui. Ho vissuto 10 anni a Bologna, dove mi sono laureata; quando dono tornata a casa, ho tirato un sospiro di sollievo!
RS: Non ti piace tutto quello che incontri scendendo dalla tua montagna?
MARA REDEGHIERI: Ci sono dei grossi contrasti. So a cosa ho rinunciato tornando da Bologna e a cosa rinuncio tutte le volte che riscendo in città. Ho capito il prezzo che bisogna pagare. Vivere vuol dire avere una qualità di vita, che per me diventa sempre più importante: vuol dire silenzio, essere da soli quando lo desideri, vedere o non vedere delle persone quando lo vuoi.
RS: Tutto questo come finisce e come caratterizza la musica degli Ustmamò?
MARA REDEGHIERI: Ci finisce quando facciamo le nostre musiche: per noi il fatto che ci sia silenzio è fondamentale per costruirle. Abbiamo una famiglia molto larga che ci aiuta: è tutta gente che parla il nostro dialetto, sono amici che in qualche modo ci aiutano a scrivere la nostra storia, ci fanno il video, ci costruiscono pezzi in dialetto. Nel raggio di 30 km siamo almeno 20 cervelli sparsi, che lavorano tutti per gli Ustmamò.
RS: Qual è il panorama musicale, italiano e straniero, visto dall'Appennino tosco-emiliano?
MARA REDEGHIERI: In assoluto sono quella che ascolta meno musica di tutti. Non ne vado assolutamente fiera... lo dico perché è la pura verità!!! Ascolto poca musica, guardo poca televisione.
RS: Conduci una vita sana...
MARA REDEGHIERI: Sìììì... cerco di non farmi strizzare il cervello. Di solito lasciamo filtrare quello che accade in Padania e andiamo a vedere quel che c'interessa.
LUCA A. ROSSI: Dalla nostra posizione si vede un po' tutto, perché siamo in alto. Chiaramente vediamo l'ondata di rap che c'è in giro... la vedono tutti, anche perché le radio e le tv cercano di farla uscire di più.
RS: Quanto vi coinvolge?
LUCA ROSSI: Non tanto, solo un po'. Penso che sia positivo anche questo. Secondo me è importante che si comincino a fare queste cose anche in Italia.
RS: Qual è il suono degli Ustmamò?
LUCA ROSSI: E' una caratteristica del gruppo quella di non avere un genere prestabilito, sembrando a volte né carne né pesce. Secondo noi questa possibilità di cambiare è fondamentale, per uno che fa musica. Per esprimersi.
RS: Che valore ha avuto per voi l'esperienza di un tour collettivo come "Maciste Contro Tutti"?
LUCA ROSSI: Beh... per noi è stato abbastanza difficile: stavamo mixando il 2° disco e troncare il lavoro è stato duro, una distrazione, che poi è diventata anche divertimento. Probabilmente ci ha sofferto un po' il disco. Tutto sommato è stata una bella esperienza: i C.S.I. dal mio punto di vista avevano una gran carica, i Disciplinatha li conoscevamo per quello che vogliono far vedere su disco [autoritari, duri], mentre nella realtà sano persone molto simpatiche. Noi abbiamo avuto un ottimo rapporto col pubblico: anche se suonavamo sempre per primi, la gente era carica. Dall'inizio alla fine.
RS: Ne I Dischi del Mulo mi sembra ci sia una sana forma d'autarchia.
MARA REDEGHIERI: Ognuno di noi ha una personalità molto precisa. Quando facciamo gruppo, è vero, ascoltiamo molto la nostra voce; ci piace anche ascoltare gli altri. Ma solo quelli che hanno qualcosa da dire, le voci importanti. I media li eliminiamo. Dopo esiste tutto quello che ci può passare la cultura underground, se può ancora essere definita così.
RS: Il fatto che realizzate dei dischi vi obbliga comunque a passare attraverso il tritatutto dei media: che rapporti avete con quel che è fuori di voi?
MARA REDEGHIERI: Fortunatamente facciamo dischi con teste simili a noi: Giovanni L. Ferretti è il mio psico-manager, quello che in effetti mi dà la forza e il coraggio di resistere.
RS: Secondo te è una resistenza vera?
MARA REDEGHIERI: Non lo so ancora! Ferretti è una persona al mio opposto: io di solito sono molto accomodante, cerco sempre la mediazione, mentre Giovanni invece taglia tutti con l'accetta. Di conseguenza tante volte mi piace passare per il suo filtro, perché io ancora non sono in grado di capire come mi devo comportare. Non è una forma di dipendenza: è soltanto la grande stima che ho di Giovanni. Capisco che lui ha passato 10 anni della sua vita a fare quello che adesso stiamo provando a fare noi e che può passarmi tante cose intelligentemente.
RS: Che progetti avete nell'immediato futuro?
LUCA ROSSI: Dobbiamo stare fermi un po' in montagna e trovare una bella sala prove, come vogliamo noi, possibilmente isolata, con la possibilità di registrare: vorremmo starci il più possibile, aver più tempo dell'altra volta, fare meno concerti e suonare, perché nel 1994 vogliamo un nuovo disco, realizzato con tranquillità.
Grazie a Marco Mataloni per il materiale.