Interviste



Suoni & Ultrasuoni, 1997.

"Consorzio Suonatori" - RockStar n.10, febbraio 1994.

"CSI - Maciste contro tutti" - URLO n.5, aprile 1993.

"CSI, fuochi nella notte" - Intervista/soliloquio di Magnelli dopo il concerto con Goran Bregovic.

Giovanni Lindo Ferretti - Rockol.it, 25 giugno 2000.


Suoni & Ultrasuoni, 1997.
RockStar n.10, febbraio 1994, più un'intervista agli AFA e agli Üstmamò
URLO n.5, aprile 1993.




Csi, fuochi nella notte

Più che un'intervista, emozioni e sensazioni di Francesco Magnelli nella serata fiorentina che ha inaugurato il nuovo corso di Ferretti e compagni.
di Federico Fiume


L’abbraccio c’è stato, forte, commovente. I Csi e il loro pubblico si sono ritrovati in una serata magica al Palasport di Firenze. La festa (perché di questo si è trattato) fra amici che non si vedevano da tempo, è stata voluta e organizzata da Francesco Magnelli e l’incontro con Goran Brègovic e la sua Weddings and Funeral Band l’ha arricchita di significati artistici ed umani di grande intensità. "Tutti noi-dice Magnelli- avevamo voglia di suonare dal vivo, ma non volevamo fare solo un concerto dei Csi, perché non avrebbe avuto molto senso senza un contesto preciso intorno".

Così nasce l’idea del concerto di inizio millennio e della collaborazione con Brègovic, "un artista che, anche se fa una musica diversa dalla nostra, è sulla medesima lunghezza d’onda e ha la stessa voglia di sperimentare. Lo stimolo di lavorare con lui era forte e mi sembra che questo sia stato apprezzato dal pubblico. Non ho sentito grandi differenze fra l’uscita dei Csi e l’entrata di Brègovic sul palco. La gente era contenta ed è stata contenta fino alla fine". Magnelli ha ragione: l’idea di attrezzare lo stage in modo da evitare i tempi morti del cambio palco, ha contributo a far scorrere un concerto nell’altro con naturalezza e senza interrompere la continuità della festa.

Quando, alle 21,05, i Csi salgono sul palco, quello che si nota di più e l’assente: Massimo Zamboni non è più della partita già da stasera e questo rende chiaro come ormai la frattura sia consumata fino in fondo. L’amico e complice di Giovanni Lindo Ferretti in quasi un ventennio di sodalizio, ha già separato la sua strada da quella del Consorzio. La musica parte ed è subito una sorpresa: una fluida, ipnotica ballad, scorre per alcuni minuti in versione strumentale prima che sul palco si materializzi, in pantaloni e maglia nera, la figura magra di Ferretti, accolta da un’ovazione del pubblico. C’è chi guarda in faccia l’amico e vede la sua stessa espressione incerta. Dopo le prime strofe del testo, l’espressione da incerta si fa stupita: non è niente di conosciuto. Polvere fa parte infatti dell’album solista che Ferretti farà uscire in primavera e se il buongiorno si vede dal mattino, c’è da aspettarsi molto.

L’arrangiamento dei Csi trasforma i suoni sintetici dell’originale, li ammorbidisce e fa di Polvere un brano che sembra uscire da In quiete. Ma sarà tutta la prima parte del concerto a viaggiare su toni tanto intensi quanto delicati, sostenuti dalla chitarra acustica di Gianni Maroccolo. Scorrono Esco, Cupe Vampe, Irata, Inquieto, Memorie di una testa tagliata, Brace, poi Trama tenue: Ginevra Di Marco in full effect. Lei, scalza e con una lunga gonna che sfiora il palco, i lunghi capelli sciolti, sembra uscita da un dipinto di Raffaello. Ferretti si dondola o forse balla a modo suo, sorridendo e fumando una sigaretta. Poi esce con Ginevra per lasciare il microfono a Giorgio Canali e alla sua Probablement, tanto per ricordarci che esiste un album di Canali, Che fine ha fatto Lazlotoz?, bello, intrigante, intelligente e ignorato da molti: peggio per loro.

"Qualcuno - sostiene Magnelli - ci aveva sconsigliato questa scaletta per un Palasport. Ma noi a queste cose, lo ammetto, non ci stiamo molto attenti e poi avevamo tanta voglia di fare Memorie…, Cupe Vampe, Inquieto, etc. e l’accoglienza del pubblico a questa prima parte del set ci ha fatto davvero piacere. Sentirli cantare Memorie o Brace fatta solo con piano e voce, è stato bellissimo. Penso che sia una delle più belle scalette che abbiamo fatto, c’è la parte di In quiete, ci son canzoni come Irata che non facciamo quasi mai, Cupe vampe all’inizio. C’è tutto in quella scaletta lì e il nostro pubblico ha dimostrato di essere sulla nostra stessa frequenza".

Quando Maroccolo lascia l’acustica per imbracciare il basso si capisce che stiamo entrando nella parte "elettrica" del concerto. In viaggio fa alzare tutti in piedi. Molti saltano a tempo con la musica. Unità di produzione, Forma e sostanza, Matrilineare e M’importa na sega in sequenza, mandano l’entusiasmo alle stelle. A quel punto fermi tutti: Ginevra intona in splendida solitudine Ederlezi di Brègovic, poi entrano gli strumenti e quella dei Csi si rivela ad ogni istante che passa una versione assolutamente superba.

Fuochi nella notte è il commiato, ma anche l’incontro con Brègovic, sul palco insieme alla sua band: sette ottoni, quattro voci bulgare e un fisarmonicista che è anche batterista percussionista,cantante, etc. Tutti insieme appassionatamente, con Magnelli che abbandona le tastiere per dirigere l’improvvisata big band e improvvisarsi a sua volta felice ballerino.

Sono le 22,30 e sulle note di Kalashnikov (che verrà inevitabilmente ripresa anche come ultimo bis) decolla il set di Brègovic. Intanto nei camerini dei Csi si affacciano per felicitarsi Jovanotti, Cisco dei Modena City Ramblers, Manuel Agnelli, Mara degli Ustmamò. Ferretti, pur intimamente sofferente per l’affaire Zamboni, è contento, sembra sollevato dalla riuscita del concerto. Per lui dev’essere stato una specie di esorcismo, un rito catartico.

Ma anche per gli altri non è stato molto diverso: in quei camerini, che sono poi gli spogliatoi del Palasport, sembrava di vedere una squadra che ha appena vinto una partita vitale. Forse perché, come sostiene Magnelli: "Si può parlare fra di noi, essere convinti che i Csi ci sono e vogliono continuare, ma di fronte a una verifica importante come quella dell’altra sera, con una risposta di grandissimo affetto dal pubblico, la positività e la voglia di andare avanti si caricano di un’energia formidabile. Le verifiche più importanti si hanno di fronte al pubblico e l’altra sera ci sono state delle emozioni che sono corse molto, molto forti. Io ero molto emozionato e ho visto tutti, a turno, piangere addirittura, sul palco. A parte Ginevra e Lindo che erano un po’ più tranquilli, se così si può dire. Credo che sia stato uno dei
nostri concerti più belli; sono contento del pubblico, della serata che è stata presa come una festa, che era quello che volevamo".

© Katanews 1999




Giovanni Lindo Ferretti

Sentimenti controversi, ecco cosa ti ispira Giovanni Lindo Ferretti. Te lo bevi, quando parla, infiammato di volta in volta dall’argomento su cui sembra accanirsi come se tutto fosse definitivo, totale, ‘finale’. Te lo bevi, salvo poi accorgerti, a mente fredda, che spesse volte non condividi affatto quello che ha detto. E’ successo di recente, durante il discorso di presentazione del suo disco solista alla stampa, è successo ancor più di recente sulla base di dichiarazioni alquanto opinabili relative alla vendetta, alla legge del taglione, alla necessarietà della guerra, riportate da alcuni giornali musicali e amplificate da altri. D’altronde lui avvisa già da lontano, quando sceglie come primo singolo estratto dal suo nuovo album “Barbaro”. E non è il ritorno alla purezza d’intenti del ‘buon selvaggio’, quella di Ferretti, ma anzi il suo contrario: forse è la reazione liberatrice di chi ha creduto per troppo tempo nella ragione e ne è stato ripagato con una dissoluzione che menti intelligenti come la sua e quella di Zamboni non hanno saputo tenere lontano da scene di quotidiana miseria. Se questo è ciò che frutta l’affidarsi al ragionamento, meglio allora essere barbari, rivendicare carne e sangue e muscoli e vendette. E’ un quadro a tinte fosche, tuttavia, così come lo è il disco che Ferretti ha preparato per i suoi fans. Si intitola “Co.dex”, ha fatto la sua veloce comparsa in classifica e Ferretti ce l’ha presentato così, partendo da un passo indietro, relativo al cortometraggio realizzato da Davide Ferrario e intitolato “Sul ponte di Mostar”, un souvenir tragico e potente della trasferta consumata in Bosnia dai CSI due anni fa.
Una cosa che mi è piaciuta molto, a proposito del documentario di Davide Ferrario sui CSI a Mostar, è stato il finale, con un maratoneta che corre nell’anello dello stadio cittadino e che per il regista rappresenta qualcosa che non è ancora stato messo a fuoco di tutta quell’esperienza. Penso che questo finale dia bene la misura di quanto enorme fosse la situazione con cui vi siete confrontati, quando avete deciso di fare la scelta di andare a Mostar e a Banja Luka.
Sì. Tra l’altro quello è proprio il momento in cui Ferrario è i CSI. Credo che questa sua considerazione riguardasse tutti quelli che in quel momento erano lì con noi, e che hanno fatto parte di questa storia. Quella è la sua capacità di essere un facitore di cinema e di metterci qualcosa di suo. Alla fine in ogni modo lui riesce a chiuderci tutto in modo che possiamo ricominciare insieme; lo ha fatto con “45esimo parallelo” e lo fa anche in questo “Sul ponte di Mostar”, che per molti versi rappresenta una situazione molto più facile da spiegarsi, nel senso che davvero non abbiamo le risposte e non abbiamo neanche bene le domande. Comunque è proprio così, è come se il giro – rappresentato dal maratoneta - dovesse fermarsi per rifare i conti. E’ molto bello, è un immagine aperta e chiusa, è uno che fa sempre lo stesso giro, ma in realtà nessun giro è mai uguale all’altro. In questo finale lui dice quello che vorremmo dire tutti, e del resto era stato invitato a Mostar per quello, per fare la sua parte. Lo dice anche lui nel film, che non aveva minimamente idea di cosa venisse a fare, però alla fine c’è un senso, un motivo, che vengono fuori dal film. Per la Mongolia è successo il contrario, era nata la musica e poi è arrivato il resto, qui invece si è partiti dall’idea di fermarsi e lasciar sedimentare quell’esperienza: dopo due anni è arrivato questo film, e soprattutto con “Sul ponte di Mostar” Davide ha rimesso in circolo una storia molto più grande di lui, in senso buono, che è la storia dei CSI. Credo che Davide abbia fatto un regalo grosso ai CSI.
Credo che se non altro gli abbia ricordato chi sono e di cosa sono capaci, visto che quando guardi il film e vedi lo stadio di Mostar quasi vuoto, i CSI schierati in formazione da concerto come se niente fosse, Ferretti con le sue code di cavallo attaccate al microfono...insomma non si può non rimanere colpiti dalla enormità di quella situazione...
E’ facile dimenticare le cose perché nessuno te le riporta con la evidenza e la violenza che hanno avuto. E’ bastato rivedere un attimo la prima immagine del boulevar di Mostar per essere di nuovo lì, non è cambiato niente, e quella è una cosa con cui non abbiamo fatto i conti. O meglio ci siamo limitati a dire che come prima non poteva più essere, e ci siamo fermati lì....comunque quella cosa lì, nonostante la quota di fatica e di dolore, ci aveva convinto che niente sarebbe stato più come prima. Del resto per me e per Massimo Mostar era l’ultima tappa dopo la Mongolia: io sono tornato a casa dopo Mostar, perché dopo la Mongolia c’è stata di mezzo tutta la parentesi fortunata di “Tabula rasa elettrificata”, dov’è successo tutto il contrario di quello che sarebbe successo dopo. Dopo Mostar eravamo tutti coscienti del fatto che stesse per succedere qualcosa, che fosse in atto un processo di dissoluzione: ne avevo la coscienza, sicuramente, anche se a volte mi piace rimandare la presa di consapevolezza di una cosa e aggiungere altra carne al fuoco, perché so che ad un certo punto dovrò dare un giudizio rispetto a quanto succede. Che la dissoluzione si stesse svolgendo ce ne siamo accorti tutti, al punto che abbiamo interrotto una tournée che andava sempre meglio: cosa vuoi di più, ti pagano sempre di più, suoni sempre di meno, ogni sera sali ed è già finito....però non è quella la filosofia dei CSI. Ci siamo fermati, quindi, ognuno ha ricominciato a dedicarsi alle sue piccole cose, e io ho pensato che il mio ’dopo’ sarebbe stato con Massimo, ancora non immaginavo nemmeno quello che sarebbe potuto succedere. Pensavo che la dissoluzione non avrebbe riguardato anche noi...sai in questi mesi quante volte mi sono chiesto “Cazzo, Ferretti, ma tu sei arido!?!...”, anche se so di non esserlo, ma d’altra parte fino all’ultima volta che ho parlato, prima di andare a Berlino, non riuscivo ad immaginarmi senza Massimo. Per me era una storia non divisibile, e invece questo processo di disgregazione ha creato un dato di fatto per cui adesso è come se io e Massimo non ci fossimo mai conosciuti. Riuscirò prima o poi a localizzare il vuoto, ma per il momento mi sento come se mi avessero annullato il matrimonio....Del resto, con Massimo avevamo sempre messo in conto l’eventualità di chiudere la nostra storia, soltanto pensavamo che la cosiddetta civiltà e intelligenza ci avrebbero permesso di farlo in modo civile, quasi indolore, sicuramente superiore a come gli altri gestivano le proprie cose. Già al tempo di “Linea gotica” ci eravamo però resi conto che queste considerazioni ‘illuminate’ non valgono quando c’è una guerra in corso, che può trasformare i più fini pensatori in belve assetate di sangue. Ecco, questo è quello che è successo anche a noi nel nostro piccolo: ci siamo resi conto che l’intelligenza non era un limite su cui fare affidamento. Il limite non è esistito, ed è venuto fuori il peggio del peggio dentro di me e dentro di lui. E’ inutile raccontarcela, se vuoi posso anche dirti che siamo stati dei signori, visto che io do a Zamboni il 50% dei guadagni di questo disco...sì, però io lo odio, e credo che dargli il 50% degli introiti di un disco al quale lui ha partecipato fino ad un certo punto sia la forma più alta di disprezzo che posso esprimere. E la cosa peggiore è che forse questo 50% è proprio l’unica cosa che gli interessa di questo disco...Insomma, credo che se uno guarda dentro di sé capisce tutte le follie del mondo.
Dopo Mostar e il successo di “Tabula rasa...” mi aspettavo qualcosa del genere, come una ripartenza tua e di Zamboni...cosa in concreto vi siete trovati in mezzo tu e Zamboni che non avreste mai immaginato, visto che Berlino era stato concordato...?
Noi siamo partiti per andare a festeggiare la nostra onorata società che compiva 18 anni: tutto ci chiedeva questo, ognuno si stava facendo le proprie storie, per cui per me e Massimo c’era il tempo di farci la nostra storia insieme. Lui è venuto un giorno di primavera di un anno fa e mi ha detto: “Ferretti ho scoperto cosa dobbiamo fare: Bologna 2000, un libro e poi un disco a Berlino”. La dissoluzione è cominciata con Bologna 2000, le cose concrete sono così piccole che mi vergogno a dirle per me prima ancora che per lui. E’ successo qualcosa che chissà da quanto tempo doveva succedere, ma non posso entrare in questa dimensione, che sta a metà tra lo psicanalitico e il religioso, posso solo dire che non c’è stata più possibilità di dire una parola. Io sono convinto di essere stato trattato molto male: quello che credevo fosse un ovvio positivo si è trasformato in un ovvio negativo, con Zamboni che pensava: “io faccio quel cazzo che mi pare tanto Ferretti è obbligato a starmi vicino perché lui da solo non può fare niente”. Questa era una convinzione folle che lui aveva, per cui era convinto di poter fare qualsiasi cosa perché tanto io alla fine avrei dovuto tornare da lui e chiedergli scusa. Alla fine Eraldo Bernocchi faceva due dischi, uno con me e uno con Zamboni, che gli diceva di lasciarmi fare e che tanto alla fine avremmo fatto quello che diceva lui, perché io da solo non ero in grado di fare niente. Non era nato così, il nostro rapporto; ognuno dei due faceva delle cose affidandosi all’altro per delle altre, ma Zamboni adesso mi trattava come il servo, e non vedeva l’aspetto positivo di quella situazione. L’apprezzare Zamboni non voleva dire disprezzare me, insomma. E poi mi ha deluso molto lo scoprire da parte sua un attaccamento ai soldi che non avrei mai immaginato, anche se questa me la sono andata a cercare perché per 17 anni ci sono state tante cose che avrei dovuto vedere e che non avevo visto, anzi, io sono stato un limite invalicabile tra chiunque volesse discutere con Massimo di queste cose e noi, la nostra coppia, visto che lo consideravo al di sopra di tutto. Ad un certo punto ho considerato che stavo pagando degli errori che molti altri hanno già pagato prima di me, e allora ho visto le ragioni di tutti gli altri, di Antonella, di Bedini, di Maroccolo, di Magnelli, ragioni che io non vedevo perché nutrivo fede cieca in Zamboni, che poi è la fede delle grandi religioni. Per capire una cosa personale con la stessa chiarezza con cui ho capito la situazione della ex-Yugoslavia ci ho dovuto mettere di mezzo una storia dolorosa e allucinante come questa, che però è finita.
Parliamo di musica! Questo disco ne è pieno...
Nel momento in cui ho dovuto fare i conti con la dissoluzione mia di Zamboni, non ho potuto nemmeno più contare su Tancredi, il mio cavallo, quello che per cinque anni avevo allevato e cresciuto come se fosse l’essere animale fisico più vicino a me. All’improvviso è morto, l’ho trovato fulminato alla fine di un temporale. A Berlino non solo non avevo a disposizione Massimo, ma non sapevo nemmeno chi fosse quella persona che avevo davanti a me. Cosa è successo a quel punto? Quello che è successo è che anche la dissoluzione non può essere assoluta, e anche la scelta che avevamo fatto sul tecnico si è rivelata perfetta più dal mio punto di vista che dal suo. Avevamo scelto Bernocchi dopo il lavoro fatto con gli Afa, e lui è stato l’aiuto del cielo, perché per prima cosa è stato un perno intorno a cui io e Zamboni abbiamo finito di sfaldarsi. Tra le due cose che stavano succedendo, tra i due dischi che lui stava facendo con noi Eraldo era più attratto dal mio, io e lui ci capivamo molto di più di quanto io e Massimo o Massimo e Bernocchi. Se avessimo sbagliato il materiale umano questo disco non sarebbe mai uscito, e per me è stata un’esperienza preziosa, nella quale ho imparato a fare tutto, compreso a scegliermi le batterie alla fine del disco. E’ stato bello lavorare con lui che mi ha fatto molti complimenti musicali, e mi sono reso conto che ne avevo bisogno davvero, il che vuol dire che ero in una situazione un po’ strana. Ho sempre pensato di non avere bisogno dei complimenti di nessuno, e invece non è così. E’ una cosa che mi aiuta davvero, ricevere un complimento. Bernocchi da subito mi ha fatto notare che io ho delle grandi idee musicali, che non è vero che non capisco la musica, e allora mi sono venute in mente tutte le chiacchierate con Campo sulla musica sintetica, sulla techno: le prime cose che si preparavano con Massimo a Berlino mi facevano schifo, sembravamo i finti CSI, con un finto Maroccolo e un finto Magnelli. E allora mi chiedevo a cosa servisse. Credo che il presupposto dovesse essere diverso, se facciamo un disco sintetico: io parto dalla mia voce e ho bisogno di un ritmo dal basso. Non puoi farmi fare una ballata, perché allora le ballate le faccio con Magnelli e Maroccolo, visto che è una vita che me chiedono. Bernocchi mi ha fatto ascoltare delle cose che non conoscevo, però i miei gusti gli piacevano, perché ad esempio mi sono innamorato del Wu-Tang Clan, e ascoltavo cose legate a quel giro e sapevo riconoscerle, poi ci sono delle voci femminli che mi piacevano e che ho comprato e che a Eraldo sono piaciute molto. Un’altra cosa importante è stato l’arrivo del trombettista Toshimoro Kondo, che era a Berlino per un concerto. Io volevo una voce giapponese per “Warum”, e lui si è portato la tromba, e ci ha chiesto se poteva suonare sul pezzo. Toshimoro Kondo è stata una presenza inaspettata, che si è concretizzata in studio quando avevamo pronte solo due mezze canzoni. Queste due figure sono state molto importanti per la rinascita e per la realizzazione del disco. Io ho firmato tutte le composizioni con Bernocchi, e per questo ho litigato con Zamboni, che d’altra parte mezzo disco non l’ha neanche ascoltato e non ci ha nemmeno messo una nota. Siamo partiti dal punto giusto, da “Warum” e “Sospeso”, Kondo ha detto “questa voce è bellissima, posso metterci la mia tromba?”, e lì ho capito che tutto ripartiva. Avevo bisogno di quel complimento; abbiamo messo giù le trombe, e lì ho capito che non esisteva solo Zamboni al mondo, e che fare un mio disco da quel momento in poi sarebbe stato possibile. Ho capito che avevo bisogno della ritmicità che serve a quelle parole, e che quando ho entrambe le cose mi serve un colore, un suono, uno strumento; la prima cosa che è arrivata era una tromba, poi l’archetto degli Afa, di Juri, ma lì era già un’altra storia. Di chitarre di Zamboni, su questo disco, ce ne sono tre: tutte le altre sono le chitarre di Bernocchi, comprese quelle più zamboniane. Questo non lo percepirà nessuno, perché anche nella mia famiglia in molti hanno pensato che fossero tutte chitarre di Zamboni. Le chitarre sono state aggiunte da Bernocchi, e anzi, se non avessi avuto Eraldo non avrei messo chitarre, tanto che se farò un altro disco sintetico le chitarre non ci saranno.
Concerti: cosa succederà?
Io non sono un grande amante dei concerti, però voglio cantare le parole di questo disco: per cui credo che metterò insieme uno spettacolo, prima del disco dei CSI, con un signore in camice bianco, che sarà il signore delle macchine e sarà Bernocchi, e un signore della voce
vestito in nero, che sarò io. Una dimensione teatrale, insomma. Per quanto riguarda i concerti, invece, voglio i CSI, voglio Magnelli, Ginevra, il basso a 8mila watt di Maroccolo...ci ho messo una vita a sopportarlo, adesso cosa faccio, vado sul palco con le spie in cuffia?


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