CRONACHE DA UN ALTRO MONDO
CON I CCCP E I LITFIBA IN TOUR IN RUSSIA


di Alba Solaro

Siamo sbarcati, armi e bagagli, all'aeroporto Ceremetievo di Mosca nella notte del 22 marzo.
Una vistosa comitiva di musicisti italiani in tournée in Russia, quella Russia di cui la poetessa esule Marina Cvetàeva scriveva "è sempre stata un altro mondo, con i suoi orsi bianchi o i suoi bolscevichi, poco importa, sempre altro". Marina amava molto la vecchia Russia degli orsi bianchi, ma si sentì per sempre estranea alla modernità sovietica che avanzava; pure, a quella terra che aveva abbandonato, tornò, negli anni trenta, prima di decidere di morire. Perché la Russia può essere un sentimento molto forte anche per chi vi capita da semplice viaggiatore occidentale, in tempi in cui sia orsi bianchi che bolscevichi si direbbero specie in via di estinzione.
Che CCCP Fedeli Alla Linea e Litfiba si imbarcassero in un tour insieme, accompagnati dai Rats di Modena e da una band pugliese agli esordi, Mista & Missis, già di per sé costituiva un piccolo evento. Immerso, poi, nell'alterità del mondo sovietico, si è risolto in un'esperienza per tanti versi straordinaria, 'breve ed intensa', come si usa dire di certe storie d'amore.
Una storia durata, in questo caso, la rapidità di una settimana divisa tra Mosca e Leningrado, due concerti e tanti incontri, immagini nuove negli occhi, anche tutti i problemi tecnici che era prevedibile avremmo incontrato e poi la soddisfazione di essere lì presenti in giornate che non è eccessivo definire storiche, le giornate delle elezioni sotto Pasqua; anche se del loro esito, dell'accelerazione che hanno impresso alle scommesse della perestrojka, abbiamo saputo solo più tardi, al nostro rientro, dai giornali.
Una scommessa, aperta ad imprevedibili risultati, lo era in fondo anche l'idea di portare CCCP, Litfiba e compagni in URSS; idea pensata e realizzata dall'ARCI Nova pugliese e da un piccolo ma intraprendente comune a guida comunista del Salento, Melpignano: Spinti dalla curiosità per ciò che si agita nelle esistente dei movimenti giovanili in Unione Sovietica, Arci Nova e Melpignano dettero vita lo scorso luglio al progetto "Le Idi di Marzo", organizzando per la prima volta in Italia un festival di gruppi rock sovietici. La rassegna cerca di presentare uno spettro più ampio possibile che muoveva dalle formazioni ufficiali' a quelle underground, ma D dato veramente eclatante non fu tanto quello dei suoni ascoltati quanto di un Intreccio strettissimo fra musica e vita sociale e politica che quei gruppi venivano a raccontare. Perché il discorso di 'scambio culturale' intrapreso fosse veramente completo non restava a quel punto che ribaltare l'esperienza e portare anche il rock italiano nell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Il meglio del rock italiano naturalmente, Litfiba e soprattutto CCCP, per i quali questo viaggio ha certo rappresentato anche la possibilità di un rapporto reale con quel modo che ha tanta parte nel loro immaginario. Pochi precedenti si contano, e tutti negli ultimi mesi: Kim Squad ed Avion Travel, i romani Selena Moor. Sperando che siano solo i primi di una lunga serie.

Nella sala arrivi dell'aeroporto, aspettando i bagagli (che sono tantissimi, per la maggior parte bauli con la strumentazione dei gruppi, ed un leit-motiv di tutto il viaggio sarà proprio il continuo carica, scarica, scarica; la dura vita della rock band), la Russia ci viene per la prima volta incontro con le sembianze di una diva ormai anziana, quasi una Gloria Swanson affascinante e fiera. La signora si chiama Nina e dirige il Balletto Nazionale della Georgia, reduce da un giro di spettacoli in Italia. Circondata dalle sue ballerine, mette subito in chiaro una cosa: lei non è russa, è georgiana, fa una bella differenza in una terra attraversata da profondi conflitti nazionalisti, e i moti di Tbilisi riecheggiano nell'amabile conversazione della signora Nina, che ammira le città d'arte italiane, ma detesta Mosca.
Mosca la capitale è una città titanica. Attraversando la vastità sacrale della Piazza Rossa (detta anche Piazza Bella perché i russi usano la stessa parola, "krasnyj", per dire sia rosso che bello) o percorrendo i viali dal centro alla periferia, ci accompagna sempre un'impressione di forza, dinamismo, ma la durezza tragica della grande anima russa si riflette anche sull'architettura monolitica dello stalinismo.
In questa megalopoli austera la gente è quasi sempre folla, nella metropolitana come nei vicoli in fermento della vecchia Mosca, l'Arbat, resa ancor più animata dal clima elettorale, dai piccoli comizi improvvisati, dai capannelli di gente che legge i volantini con la foto dl Eltsin. La perestrojka ha ridato voce alla società sovietica. Scriveva una ventina di anni fa il poeta Evgenij Evtusenko; "Immobilità vuol dire onore, onore al cielo e alla terra, immobilità è movimento segreto dentro di noi e dunque verso noi stessi". Con la fine dell'era della stagnazione brezneviana e l'avvento di Gorbaciov l'immobilità è stata spezzata e quel 'movimento segreto' è ora libero di esprimersi, magari in una confusione esplosiva ma vitale di idee, fedi, malumori, rivendicazioni nazionaliste, gruppi informali. In questo contesto il rock, pertanto tempo represso, marginalizzato, si è fatto interprete degli umori della società (come da noi raramente sa ancora essere), in quanto linguaggio autonomo, forte, libero; segna il ritmo della trasformazione, è davvero, ora più che mai, un 'ritmo della nostra epoca'.

Lo ZSKA è un palasport alla periferia nord di Mosca. Per arrivarci si sfiora il grattacielo bianco della 'Pravda' e ci si inoltra in un complesso sportivo militare.
All'interno del palazzetto il palco è posto al centro della platea, coperto da un vasto telo nero, con due enormi vasi di fiori ai lati. Lo spazio è bello, come pare siano belle tutte le sale adibite ai concerti dai russi, che tengono in grande considerazione la vita culturale. Ma la cultura deve fare i conti anche con chi la governa. La sera del concerto allo ZSKA arriva poco pubblico, non per scarsità di interesse ma perché non c'è stata sufficiente pubblicità ed il biglietto ha un costo per molti proibitivo, dieci rubli, che al cambio ufficiale equivalgono a circa ventimila lire. E' il prezzo pagato per essere finiti nelle mani di un organizzatore locale con pochi scrupoli e scarsa voglia di investire sulle belle speranze del rock italiano; infatti se lo erano già trovati sulla propria strada anche Kim Squad ed Avion Travel, con storie più o meno simili.
Sarà invece la presenza massiccia dei media a caratterizzare il successo della serata e a darle il sapore dell'evento. Incuriositi, interessati, informati, affollano il backstage, richiedono interviste ai gruppi: sono giornalisti della televisione, della stampa, della radio, come il simpatico Valery Korothov, che ogni sabato intorno alle 22 di sera conduce a Radio Mosca un programma in italiano sulla musica ed i giovani (onde corte 31, 41, 49), e si rivela anche un attento lettore di Rockerilla, ogni qualvolta riesce a procurarsene una copia.
Il prologo del concerto ha un che di comico e surreale. Spunta fuori un presentatore pippobaudesco in marsina, fa qualche battuta ironica che noi ovviamente non comprendiamo ma a cui il pubblico ride divertito, ed introduce pomposamente i due gruppi spalla del posto. Non ho afferrato il nome dei primi, che non sono sgradevoli, alle prese con del pop russo e cover dei Beatles, ma i secondi, Galactica, sembrano aver assorbito il peggio del glam rock di qualche anno fa. La cosa davvero sconcertante però è che, per motivi che resteranno misteriosi, entrambi si esibiscono in playback! Non so se sia usuale; spero, in realtà, che l'esigenza del playback fosse dovuta solo dalla presenza delle telecamere della tv di stato. E non è finita qui con le sorprese. Poco dopo viene portato un banchetto davanti al palco ed il presentatore si trasforma in imbonitore per una vera e propria vendita all'asta. Copie degli album di Rats e CCCP, che in realtà erano state spedite come materiale promozionale, e della compilation "Breakthrough" di Greenpeace finiscono aggiudicate ai migliori offerenti mentre i soldi dovrebbero andare ad un fondo per il restauro della vecchia Mosca, anche se nessuno sembra crederci più di tanto.
E in fondo tutto questo non è che folklore, poca cosa davanti alla soddisfazione di suonare finalmente per il pubblico moscovita. E' molto tardi quando finalmente i Mista & Missis salgono sul palco. Sono in sei, un colpo d'occhio vivace e colorato, hanno percussioni, tastiere, un ottimo sassofonista (Roberto Gagliardi, ex Band Aid), ed una cantante tedesca dalla voce squillante, Effeth Djalili ma il loro melange ritmico di jazz, afro, reggae, scivola spassionatamente fra gli spalti occupati da molti adolescenti, gruppi di ragazze, militari, anche qualche adulto.
Per loro la vecchia buona retorica del rock' n 'roll generoso e sudato ha la meglio sulle strategie urbane, tutte spigolose fluorescenze dei Mista & Missis. Scandito in italiano, impugnato con grinta, il rock dei Rats, che si esibiscono con la più classica delle formazioni, chitarra-basso-batteria, si fa pregio dell'immediatezza, niente accessori, solo il romanticismo da garage e l'esuberanza della chitarra di Wilko, all'apice della cover di "Gloria", che strappa applausi e fa battere a ritmo i piedi. La differenza fra 'rock cantato in italiano', ma sostanzialmente devoto al modello originale, ed una 'nuova musica italiana' che di rock si nutre come di altre suggestioni sonore, è tutta lì, nello scarto fra l'esibizione dei Rats e quella dei Litfiba, che danno loro il cambio.
Pelù danza come uno zingaro, o forse un cosacco; la musica dei Litfiba danza con lui, segue le inflessioni scure, profonde, della sua voce, asseconda il desiderio di una passionalità latina, gioca con il blues, le citazioni western (Tex), le melodie balcaniche (Istanbul). Non è difficile per loro ammaliare l'audience qui come in patria, grazie al magnetismo mattatoriale di Pelù ed un'enfasi che cresce ad ogni brano.
I CCCP sono una diversa seduzione.
Già il presentatore ha difficoltà ad introdurli: un gruppo italiano che si chiama CCCP? Sui manifesti del concerto a Leningrado hanno persino pensato di tradurne il nome, da CCCP a USSR; se ne potrebbe quasi ricavare un sofisticato giochino sul filosovietismo riversato in filoamericanismo, ma la realtà è ancora più avanti, la realtà sono i ragazzini che davanti ai grandi alberghi rivendono ai turisti la moda occidentale del filosovietismo assalendoli con le belle spillette commemorative. Ma questa è un'altra storia. Lo spettacolo dei CCCP sfugge le definizioni; è un assalto emotivo che rimescola provincia emiliana e primitivismo punk, spiritualità e pornografia, "Radio Kabul" e "A Ja Ljublju SSSR". E c'è anche chi fra il pubblico si alza in piedi alle note rielaborate dell'inno sovietico, istintivamente, captando al di là del gusto della provocazione il senso di un omaggio. Lo stesso senso che, con un po' di cattiveria in più, si ritrova in una delle canzoni nuove, "Huligani Dangereux", dedicata alle bande giovanili dell'est, nel tipico stile grezzo proto-punk dei CCCP, ed illustrata in quest'occasione da Annarella vestita in uno strepitoso costume da matrioska alto due metri, che strato dopo strato la lascia in un grembiulino a fiori e una parrucca gialla. Una performance ripetuta la mattina dopo scendendo le scale di S.Basilio sulla Piazza Rossa, sotto gli occhi delle guardie, e dei bambini che l'hanno immediatamente circondata; l'ultimo, bellissimo souvenir di Mosca.

Domenica di Pasqua, dopo un lungo viaggio notturno in treno, siamo a Leningrado, la vecchia Pietroburgo degli zar, edificata nel 700 da architetti italiani e francesi secondo il loro gusto classico e barocco. Leningrado è considerata la metropoli intellettuale, effigiata dal decor morbido ed elegante del Caffè della Letteratura che si affaccia sulla prospettiva Nevskij ed un tempo era frequentato da Puskin e dai suoi amici scrittori. Se Mosca è stata in qualche modo un salto nell'ufficialità del mondo sovietico, a Leningrado incontreremo soprattutto il circuito underground che si raccoglie attorno al Rock Club.
Qualcosa di molto simile ai gruppi informali apparsi in politica, i rock club, strutture autonome legittimate dallo stato sei anni fa, sotto Andropov, rappresentano il riconoscimento di una scena rock che è sempre esistita, nata e cresciuta parallelamente alla cultura rock dei movimenti giovanili in occidente, con gli stessi modelli, gli stessi suoni rubati alle radio, gli stessi miti, linguaggi, rivolte stilistiche, ma con una profonda differenza. Perché per i gruppi sovietici il problema non è mai stato quello di cavalcare il mercato, che fosse da indipendenti o con le major, quanto di conquistarsi spazi di esistenza nella società. Per essere considerati ufficialmente musicisti ed abilitati a lavorare come tali, bisognava sostenere un esame di fronte ad una commissione ministeriale, generalmente molto prevenuta nei confronti del rock; i gruppi rispondevano con concerti fatti in semi-clandestinità. Il monopolio dell'etichetta di stato, la Melodya, veniva sfidato incidendo dischi illegalmente, su lastre usate per le radiografie al posto del vinile. Il terreno di crescita è stato perciò un rapporto diretto con il pubblico, con la vita, dove la politica entra con ií peso della quotidianità e la musica diventa arte popolare del dissenso. Per tutto questo oggi il rock è diventato fra i più accesi sostenitori della perestrojka, come racconta il giornalista Artion Troitsky nella sua avventurosa storia del rock sovietico "Back in the USSR" (pubblicato in Italia dalla Vallardi col titolo "Compagno Rock"). L'apertura alle autoimprese, il nuovo interesse della Melodya che si sta accorgendo del potenziale commerciale del rock, sta accorciando vertiginosamente le distanze fra ufficialità ed underground. Kolya, il giovane presidente del rock club leningradese, ne è consapevole; quando dice "Non abbiamo bisogno della Melodya" intende proprio dire che loro vogliono proseguire per la propria strada senza appoggiarsi all'apparato, esattamente come hanno fatto finora, ma sapendo bene che il futuro è strettamente legato agli esiti della politica gorbacioviana. E il futuro ha un bell'aspetto visto dall'eccitata umanità che affolla il Rock Club, dove arriviamo domenica sera, passando dal cortile interno di un vecchio fabbricato. Al piano superiore alcuni stanzoni con poster alle pareti fungono da sede organizzativa, di sotto invece c'è un grande scantinato con un po' di sedie, tanta gente ed un piccolo palco sul quale si alternano alcuni dei gruppi del club. Si chiamano Tempo dell'Amore, Salto Mortale, Esercito del Popolo, nati questi ultimi, dalla scissione degli Avia, ribattezzati secondo il più iconoclastico punk alla Sex Pistols. Gli Igre si presentano con il chitarrista a cui pochi giorni prima alcuni 'luberi', fanatici veteronazionalisti dediti al culturismo, avevano spaccato la mascella, e graffiano con i loro suoni elettrici, nervosi. Fra il pubblico c'è anche Misha Borzikin dei Televizor, uno dei gruppi più popolari della città assieme agli Aquarium di Boris Grebenscikov, ormai prossimi ad incidere un album con la CBS, ed agli spettacolari avanguardisti Popular Mechanika. L'atmosfera che si crea non tarda a coinvolgere anche i musicisti italiani in una session irripetibile, aperta dai Rats, che si conquistano subito l'affetto di alcuni bikers, rockers motociclisti inguainati di pelle nera che hanno giurato di fondare a Leningrado il primo fan club dei Rats! Anche i Mista & Missis hanno il loro momento con la trascinante cover di "Back in the USSR" ed un bel duetto fra il loro sassofonista ed un romantico cantautore russo armato di chitarra acustica, ma il momento più esaltante arriva quando Piero Pelù si lancia in un puro pezzo di cabaret cantando accompagnato da Aiazzi al pianoforte la "Cannon Song" di Kurt Weill. Lo stesso entusiasmo si trasmette anche alla sera seguente, sotto le volte affrescate del Palazzo della Cultura, un vecchio teatro che ospita il concerto ed è affollato di giovanissimi punk. Qualcuno beve di nascosto da bottiglie di vodka o vino infagottate nelle borse, e qualcun altro mostra di conoscere già i CCCP perché urla "Emilia Paranoica" quando il gruppo entra in scena.
Sono loro ad aprire, e i Litfiba a chiude re, secondo un copione che rispetto all'esibizione di Mosca ha una marcia in più, una carica bruciante che tiene alta la tensione della serata per tutto il tempo, ed è un grande successo per tutti. Anche per Kolya, che non ha potuto vedere la fine del concerto perché trattenuto dalla polizia col pretesto dell'ubriachezza, in realtà per un diverbio con l'amministrazione del teatro. Ma il fermo dura poco: "Sono un uomo molto popolare presso la polizia" commenta ridendo. Resta appena il tempo per i saluti, poi ciascuno farà da sé il consuntivo di questa straordinaria esperienza. Augurandoci di poterla rivivere, non ci siamo dimenticati di gettare qualche rublo nella Neva.



CCCP Fedeli alla Linea
"Canzoni, preghiere, danze del II millennio, Sezione Europa" - Virgin


di Alba Solaro

Il mondo moderno è un'illusione, e ci è già crollata addosso con il peso della confusione: ricordate due anni fa, con "Socialismo e Barbarie", i CCCP Fedeli Alla Linea ce lo avevano raccontato intensamente, con forza, intercettando un'immagine che è molto presente nella cultura di questi tempi, il medioevo come luogo-simbolo di questa presunta, oscura modernità. Il nuovo album della banda emiliana, ancora una volta bellissimo, già a partire dal titolo sembra alludere all'idea di uno scenario che ha ormai superato l'orizzonte apocalittico della fine del millennio; siamo già oltre la soglia, proiettati nel duemila, ma in che razza di mondo? "Tra frammenti di tecniche, sotto prodigi incerti, un affanno continuo, radio accese" (And the radio plays), mentre "controllano ormai gli occhi colori nuovi, elettrici, traslucidi" (Roco, Roço, Rosso), eccolo il mondo, "è un luogo finitamente spazioso, affollato di centri di concentrazione... non è questo il migliore dei possibili mondi ma è vero, assolutamente vero" (È vero).
"Siamo finiti male" concludono loro "senza proclami, senza giubilei, nelle piccole storie" (B.B.B.), privi di punti di riferimento, smarriti. Abbandonati anche dai padri spirituali, perché "intanto Paolo VI non c'è più; è morto Berlinguer, qualcuno ha l'aids, qualcuno è pre, qualcuno è post senza mai essere stato niente, niente" (Svegliami).
Sono i buchi neri dell'esistenza, la follia di credere che la ragione amministri il reale, un incubo da cui ci si vorrebbe destare, ma "non c'è modo di fuggire", cantano ancora i CCCP in "Svegliami", che apre l'album con una scossa sentimentale e impetuosa da loro appropriatamente sottointitolata "perizia psichiatrica nazionalpopolare". Ma prima ancora ci sono trenta secondi di alta provocazione ed omaggio alla tradizione, un frammento de "Il testamento del capitano" registrato dal vivo lo scorso anno ad Arezzo Wave, con in sottofondo i fischi che accompagnarono la loro contestatissima performance. Tanto per non dimenticare la loro vocazione alla scomodità. E tirano calci anche più in basso con il riff facile, punkettaro, di "Fedele alla lira?", che fa volutamente il verso ai loro detrattori, "ma tu cosa mi dai?" chiedono a chi accampa pretese su ciò che i CCCP dovrebbero essere. Ma, ancora una volta, non è una questione di verità, contro tradimenti o cedimenti, è musica, della migliore, suoni e parole che colpiscono con la forza dell'emozione e sono nutrimento per chi ha voglia di riflettere: crescete un po' voi, chiude Ferretti, che io "io mi sono sviluppato già abbastanza, anche di più".
Un po' di cattiveria gira anche nei solchi di "Huligani dangereux", dedicata ai "sovieti punki leningrada" ed ai "metallisti stalingrada", uno sguardo ironico ma in fondo tenero sulle bande giovanili dell'est, con un pensierino anche a casa nostra su un allegro punk della prima ora. Il ricordo di un primo maggio, citazioni majakovskijane, un flamenco appassionato e duro è "Roco, Roço, Rosso", fra le cose più belle del disco, che cede il passo ad un turbinoso ballo gitano, "Le qualità della danza". Ed è tutta una sequenza serrata, che prosegue sul secondo lato, ci spinge nel richiamo del muezzin in "È vero", da Pietroburgo ad Hiroshima ed in "Palestina", dedicata alla proclamazione dello stato di Palestina avvenuta lo scorso novembre. Un ritmo violento e necessario come il cammino dell'intifada, rimanda alla tempra di "Punk Islam", ma si trasforma in una preghiera umile e dolce: "Madre", come la Madonna col Bambino, violacea e dai tratti un po' naive, che appare in copertina. È qualcosa di più del ripescaggio dalla memoria di "Libera me Domine", una testimonianza di fede che nasce forse dalla ricerca di Dio in quanto "specchio dell'uomo", luogo dove ritrovarci, come ci ha insegnato certa scuola filosofica tedesca. Ma il discorso si fa troppo personale, restano i turbamenti di "And the radio plays", parole che pesano su di un reggae vaporoso, spensierato, prima di precipitare nell'allucinato delirio pornografico di "Vota Fatur", un grande exploit di Danilo Fatur per la prima volta su vinile, divertentissima follia da discoteca che assembla i postriboli di Bangkok, la città degli angeli e delle massaggiatrici, i turisti italiani, l'acid house, Tbiza, Totò e James Brown, Buddha e "Sex Machine", esplosi da un campionario assurdo di voci e vocine, c'è solo da ascoltarlo. Cos'altro potrei dirvi, che i CCCP in questo nuovo album sono un po' più musicisti, fedeli alla propria cifra stilistica ma più attenti agli arrangiamenti; o che le presentazioni ed i ringraziamenti non compaiono sulla copertina ma direttamente alla fine del disco, in un ultimo brano intitolato "Reclame", recitato dalla viva voce di Annarella. Tutto il resto scopritelo da voi.




Grazie a Marco Mataloni per il materiale.